Judo, la mia cintura nera
Di Martina Treggiari
Quando ho iniziato a fare judo, la cintura nera era vista come un traguardo, un punto di fine. Sembrava una cosa così speciale e lontana da diventare irreale, quasi la pentola d’oro alla fine dell’arcobaleno. Persino quando ho preso la cintura marrone, non ho mai effettivamente pensato a quando sarebbe stato il momento di “procacciarsi” la nera, rimaneva un titolo mistico ed indistinto.
Negli ultimi due anni invece, il concetto si è completamente rivoluzionato.
La cintura nera era tutto fuorché lontana, e invece di essere una conclusione, era piuttosto un lasciapassare, una verifica da superare per dimostrare di avere il diritto di proseguire questa arte che accompagna la mia vita da undici anni, e alla quale ho letteralmente dato sangue, sudore e lacrime.
Non penso che esista nessuno sport che sceglierei al suo posto se potessi tornare indietro, e comincerei allo stesso modo, unica femmina, unica “rotondetta”, in quella palestra sperduta. Della mia prima lezione ho un ricordo nebuloso, di cadute, saluti strani e incomprensibili parole giapponesi che ora mi sono familiari.
A Genova, non ho realizzato davvero quello che era successo nemmeno quando me l’ha comunicato il maestro Paolo, e penso di non aver veramente capito la portata del salto che avevo compiuto fino alla mia prima lezione con indosso la cintura nera. Sento che ora devo assumermi le responsabilità di questo traguardo, di cui non posso non andare fiera.
Eppure ricordo che molte volte ho pensato che non ce l’avrei mai fatta, e lo stress e la tensione minacciavano di farmi arrendere, e abbandonare questo sport che invece amo così tanto.
Fortunatamente c’era sempre qualcuno a spronarmi, a incoraggiarmi, e – perché no – a farmi una bella lavata di capo e a rimettermi in carreggiata. Quindi, forte delle mie esperienze e dei miei errori posso dire, che ne è valsa la pena.
Martina